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    VARANASI (AsiaNews) – Ashfaq Alamis e sua suocera Fazila Bibi sono due migranti da Murshidabad (West Bengal). Entrambi – si apprende da Asinews – sono giunti a Varanasi (Uttar Pradesh) per trovare lavoro e aiutare le loro famiglie. Ora rischiano di diventare dei mendicanti, senza soldi, né un tetto per dormire, né possibilità di aiutare i loro cari. È l’altra faccia della medaglia del “lockdown” – che sta coinvolgendo milioni e milioni di indiani – deciso dal premier Narendra Modi, la chiusura di tutte le attività e dei trasporti non essenziali per 21 giorni a partire dal 29 marzo, cercando di fermare l’epidemia di coronavirus. In un videomessaggio diffuso oggi, il premier ha invitato la popolazione ad accendere una candela la sera del 5 aprile, alle 21, con le luci spente in casa, per nove minuti, in una dimostrazione di solidarietà “per combattere le tenebre” del Covid 19.

    Tutto il suo mondo in un carretto trainato a mano.  Ashfaq Alamis, 43 anni, era un lavoratore a giornata: con un carretto trainato a mano trasportava oggetti e cibi nella città. Ora è senza lavoro. “Ho lavorato per cinque anni qui a Varanasi – racconta ad AsiaNews – e adesso almeno per 20 giorni non ho lavoro. Il ‘lockdown’ mi ha reso disoccupato. Ma senza lavoro sono privato di tutto. Non abbiamo soldi per acquistare cibo, non abbiamo nulla: il futuro è davvero buio. Prima, nei cinque anni precedenti, riuscivo a mandare soldi a casa, a mia moglie e ai bambini a Murshidabad. Ma adesso, senza lavoro, perfino la mia famiglia a casa morirà di fame”.

    E il premier “chiede scusa per le difficoltà”. La condizione di Ashfaq è quella di tutti i lavoratori a giornata dell’India – che sono decine e decine di milioni – i quali dall’oggi al domani sono disoccupati, senza paga, senza cibo, senza casa. Almeno 120 milioni di persone in tutta la confederazione, rimasti senza lavoro, cercano di ritornare ai loro villaggi di origine. E siccome sono cancellati anche i trasporti, molti di essi affrontano il viaggio di ritorno a piedi per percorsi fino a 700 km. Il premier Modi ha chiesto scusa per “le difficoltà” in cui ha fatto affondare i suoi “connazionali”, ma garantisce che “con questi passi… l’india vincerà il coronavirus”.

    Gli aiuti e il conforto ai Dalit, gli ultimi tra gli ultimi. Ashfaq continua: “Il governo non ci dà alcun aiuto. Stiamo sopravvivendo grazie al cibo che ci sta donando p. Anand”. Padre Anand Matthew è il direttore del Vishwa Jyoti Communications di Varanasi, che ha deciso di approntare un gruppo di coordinamento per aiutare le persone più povere negli slum di Varanasi e fra i Dalit, vale a dire i fuori casta, gli ultimi fra gli ultimi, esattamente la 5ª casta nel rigidissimo sistema sociale e religioso induista. “Ero così contento di lavorare, di guadagnare per la mia famiglia – continua Ashfaq – ora mi è stata tolta anche la mia dignità e ricevo cibo per sopravvivere. Adesso non ho nemmeno i soldi per pagare l’affitto e c’è il rischio di essere sfrattati dal padrone di casa: saremo ridotti a senza tetto e mendicanti”.

    “Fino a quando potremo ricevere la carità?” Fazila Bibi, 62 anni, suocera di Ashfaq, è ancora più pessimista: “Da tre giorni non accendo il fuoco alla mia cucina. Non ho cibo, né soldi per comprare qualcosa da mangiare: a che scopo accendere il fuoco? Sono giorni terribili: notti e giorni bui e senza nessuna speranza per il domani. Certo, questi sacerdoti (come padre Anand) ci stanno aiutando dandoci pacchi di cibo, ma fino a quando potremo ricevere la carità? Ci sono così tante persone come noi; i padri devono distribuire pacchi a tante famiglie; ci sono bambini affamati, e anch’essi devono mangiare per sopravvivere. Non ho più nemmeno lacrime per piangere. Spero solo di non morire prima di rivedere la mia famiglia a Murshidabad”.

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