Davvero l’Unione europea vuole annacquare il vino?

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    Non è una decisione definitiva e riguarda la possibilità di etichettare come vino anche bevande dealcolizzate con l’aggiunta d’acqua. Ci sono già dei precedenti e potenzialità di mercato

    Bottiglie di vino (Getty Images)
    Bottiglie di vino (Getty Images)

    L’idea è sul tavolo da tempo e le discussioni a Bruxelles sono state lunghe tra le massime istituzioni dell’Unione europea, in un trilogo che potrebbe non aver ancora risposta alla domanda: è ancora possibile definire vino una bevanda ottenuta dall’uva, a cui è stata aggiunta l’acqua riducendo il grado alcolico? È questo il dilemma su cui Parlamento, Commissione e Consiglio dei ministri europei dell’Agricoltura hanno dibattuto, arrivando per il momento a una risposta affermativa.

    In un documento di lavoro che la presidenza del Consiglio dell’Unione europea ha inviato ai delegati del Comitato speciale per l’Agricoltura si conviene sulla controversa possibilità, che in Italia ha già suscitato gli strali di Coldiretti. Finora, in effetti, tutte le pratiche enologiche autorizzate hanno escluso dal novero l’aggiunta di acqua (eccetto per particolari necessità tecniche). La modifica proposta ai regolamenti ammetterebbe un’eccezione per i prodotti da vigneto che sono stati sottoposti a processi di dealcolizzazione, in base alla perdita di acqua risultante dal processo stesso.

    L’associazione dei coltivatori diretti ha parlato di un “inganno legalizzato” che potrebbe compromettere una voce dell’export agroalimentare nazionale, che sviluppa un fatturato di oltre “11 miliardi”. L’Italia è il primo produttore mondiale di vino con 49,1 milioni di ettolitri e primo esportatore sia nei vini fermi che spumanti con un totale di 20,8 milioni di ettolitri, seguita dalla Spagna con 20,2 e alla Francia con 13,8. Il punto secondo Coldiretti è che “viene permesso ancora di chiamare vino un prodotto in cui sono state del tutto compromesse le caratteristiche di naturalità per effetto di trattamento invasivo”.

    Un precedente tuttavia esiste. È quello della birra analcolica, la cui definizione non sembra aver tratto in inganno i consumatori, che sono rimasti in grado di distinguerla e preferirla o meno a confronto con le proprietà offerte dalla varietà alcolica. La prima rappresenta una nicchia da 17,5 miliardi di dollari di mercato nel 2019, prevista in crescita a 29 miliardi nel 2026, secondo Global market insights, mentre la seconda è un colosso da 189 miliardi di dollari, nel 2020 e che potrà raggiungere i 370 miliardi nel 2030, secondo il recente Beer Global Market report 2021.

    In particolare, la birra analcolica è scelta spesso da consumatori con problemi digestivi, allergici all’alcool o che non possono assumerne per motivi religiosi, riscontrando un discreto successo in paesi come Pakistan, India o Indonesia. Lungi dall’essere meramente un “trucco di cantina”, quella del vino dealcolizzato potrebbe rappresentare un’opportunità per cogliere la stessa fetta di mercato. D’altro canto, resta problematica la proposta di modifica che ammette una parziale dealcolazione anche per etichette Dop e Igp. Nell’ultimo anno la produzione globale è state di 254-262 milioni di ettolitri in tutto il mondo secondo l’Organizzazione internazionale della vite e del vino.

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    Paolo Guzzanti

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