Riponete ogni certezza: Falcone coltivava il “dubbio metodico”

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    Pubblichiamo un lungo estratto dell’intervento a firma del giurista e accademico Giovanni Fiandaca che propone una rilettura degli scritti di Giovanni Falcone all’interno del volume che raccoglie la tesi di laurea del magistrato di Palermo a 60 anni di distanza: “L’istruzione probatoria nel diritto amministrativo” a cura di Gaetano Armao, edizione Treccani

    *Pubblichiamo un lungo estratto dell’intervento a firma del giurista e accademico Giovanni Fiandaca che propone una rilettura degli scritti di Giovanni Falcone all’interno del volume che raccoglie la tesi di laurea del magistrato di Palermo a 60 anni di distanza: “L’istruzione probatoria nel diritto amministrativo” a cura di Gaetano Armao, edizione Treccani

    Giovanni Falcone, oltre che un magistrato eccezionale, è stato anche un notevole scrittore di saggi e articoli giuridici. E, se fosse lecito trasporre nel campo del diritto una distinzione tratta dal mondo della letteratura, direi che Falcone è stato uno scrittore di cose, e non di parole: nel senso che i suoi scritti traggono sempre spunto e alimento dall’esperienza giudiziaria concreta, e perciò non danno mai quell’impressione di astrattezza o di artificio che suscitiamo talvolta noi giuristi accademici. Il grosso pubblico conosce meglio, verosimilmente, il libro-intervista Cose di Cosa nostra, scritto in collaborazione con la giornalista francese Marcelle Padovani e apparso nel 1991. È questo un libro a carattere prevalentemente divulgativo, nel quale Falcone spiega in modo semplice ed efficace la sua concezione della mafia e il metodo, anche di tipo psicologico, utilizzato per entrare in rapporto di comunicazione con alcuni mafiosi che avrebbero poi scelto la strada della collaborazione giudiziaria.

    È forse meno noto l’altro libro di Giovanni Falcone, cioè quello che raccoglie i suoi contributi a carattere più tecnico e che ha per titolo Interventi e proposte (1982-1992), pubblicato dalla casa editrice Sansoni nel 1994. Ma, prima di richiamare i filoni tematici affrontati nell’opera complessiva di Falcone, voglio fare un accenno a un punto del libro-intervista Cose di Cosa nostra, un punto a mio avviso “emblematico” perché illumina alcuni tratti fondamentali della personalità di Falcone e, nello stesso tempo, sintetizza efficacemente la sua filosofia di magistrato:

    «Mi rimane comunque una buona dose di scetticismo, non però alla maniera di Leonardo Sciascia, che sentiva il bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia. Il mio scetticismo, piuttosto che una diffidenza sospettosa, è quel dubbio metodico che finisce col rinsaldare le convinzioni». 

    Soffermiamoci sull’espressione “dubbio metodico” utilizzata da Falcone: due parole che testimoniano uno stile intellettuale ispirato a una sorta di razionalità neoilluministica; una fiducia nell’uso della ragione come antidoto contro il fanatismo intellettuale e l’accecamento ideologico; ma, nello stesso tempo, un esercizio di una ragione critica che, lungi dal diventare alibi ‘gattopardesco’ di fatalistica rassegnazione, funge da strumento positivo per modificare effettivamente la realtà. La principale peculiarità del pensiero pragmaticamente orientato di Giovanni Falcone consiste, a ben vedere, nel nesso strettissimo — un vero e proprio legame indissolubile — tra elaborazione tecnico-giuridica o riflessione politico-criminale e approccio criminologico al fenomeno mafioso: nel senso che una determinata concezione della mafia (e in particolare di Cosa nostra) come realtà criminale costituisce sempre il prius da cui egli prende le mosse per sviluppare analisi di diritto positivo o per progettare nuove strategie di intervento.

    Quale concezione della mafia trapela dagli scritti falconiani? Direi la stessa concezione che ha guidato la sua attività di magistrato, e che si connota per la sottolineatura del carattere polivalente e complesso del fenomeno mafioso: cioè Falcone, pur avendo fornito un contributo eccezionale alla ricostruzione della mafia di Cosa nostra come associazione criminale dotata di un peculiare modello organizzativo, è stato nello stesso tempo ben consapevole dell’impossibilità di ridurre la mafia a puro fenomeno criminale. Da questo punto di vista, la visione di Falcone è in larghissima misura coincidente con la concezione della mafia oggi dominante tra gli studiosi di scienze sociali: almeno per la parte in cui la specificità della criminalità mafiosa viene individuata, da un lato, in un collegamento sistemico con la società civile nelle sue diverse articolazioni e con il mondo della politica; e, dall’altro, nell’adozione di un codice culturale e di un apparato simbolico dai contenuti peculiari che rimanda alla tradizione culturale siciliana. Ma, pur essendo convinto dell’essenzialità del nesso mafia-politica, Falcone si è sempre preoccupato nei suoi scritti di chiarire politiche su contrapposti versanti. Nel contesto di un’intervista rilasciata alla storica Giovanna Fiume, Falcone ha dichiarato:

    «Ho detto spesso che non esiste il terzo livello, come un organismo lato sensu politico che diriga e controlli le attività della mafia. Sopra i vertici di Cosa Nostra non esiste nulla; esistono rapporti di coordinamento, di collegamento, esistono convergenze di interessi, talora anche inespresse, esistono poi ovviamente singoli concreti casi d’influenza su questo o quell’uomo politico. Ma non vi è affatto una connessione organica tra partiti o fette di partiti e le organizzazioni mafiose. Il fenomeno è molto più articolato e complesso e come tale molto più sfuggente alla repressione penale».

    Invero, c’è chi ha richiamato questa chiave di lettura del rapporto mafia-politica per sostenere polemicamente che un magistrato serio e prudente, come Giovanni Falcone, non avrebbe mai concepito un processo Andreotti o un processo Mannino. Si tratta di un richiamo inopportuno. E infatti scorretto utilizzare più o meno strumentalmente, a sostegno delle critiche ai magistrati della stagione giudiziaria di Gian Carlo Caselli, il riferimento a un Falcone che purtroppo non è più in grado di parlare. Al di là degli usi strumentali, una cosa è però certa: l’esito assolutorio, sia pure in forma sostanzialmente dubitativa, di alcuni recenti processi contro importanti uomini politici può trovare ampia spiegazione proprio in quel carattere “sfuggente” del rapporto mafia-politica, di cui Falcone era lucida-mente consapevole. Ma il profilo giuridicamente più rilevante della concezione falconiana si riferisce al modello organizzativo di Cosa nostra. È noto che il problema della struttura organizzativa della mafia è stato più volte affrontato non solo in sede giudiziaria, ma anche nella letteratura sociologica, a cominciare da quella ottocentesca. Le risposte in proposito fornite non sono state omogenee, anche se è tradizionalmente prevalsa la tesi che la mafia siciliana fosse costituita da un insieme di sodalizi indipendenti. In effetti, una risposta a questo problema non può essere data in astratto e una volta per tutte. Piuttosto, la soluzione può variare in rapporto al momento storico considerato e al tipo di organizzazione mafiosa che viene in questione. Orbene, la nota tesi di Falcone, di Paolo Borsellino e degli altri magistrati del pool dell’Ufficio istruzione di Palermo, che attribuisce alla mafia una struttura unitaria e verticistica si riferisce non alla mafia come categoria generale, bensì a una specifica concretizzazione storica di mafia in un frangente storico ben determinato: cioè al modo di operare di Cosa nostra a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del ventesimo secolo. Questa straordinaria intuizione investigativa, definita da qualcuno con un pizzico di enfasi “vera e propria rottura epistemologica”, manterrebbe ovviamente tutta la sua validità anche se si dovesse scoprire che in momenti storici successivi la struttura organizzativa di Cosa nostra è articolata in forma meno compatta e unitaria. Proprio la tesi della natura unitaria e verticistica costituisce la premessa criminologica del pensiero giuridico e processuale sviluppato nei numerosi scritti e ciò che li lega insieme come un filo rosso; e, com’è noto, funge, nello stesso tempo, da struttura portante di quel capolavoro giudiziario che è il maxiprocesso della metà degli anni Ottanta. Ora, il contributo di idee condensato nei circa quaranta lavori scritti che costituiscono l’eredità saggistica di Giovanni Falcone, ruota appunto attorno a una questione fondamentale: come attrezzare la macchina giudiziaria, e come affinare la professionalità dei magistrati, per fare in modo che un’organizzazione criminale di ampie proporzioni come Cosa nostra possa essere efficacemente contrastata mediante lo strumento della giustizia penale.

    Porre al centro del processo penale non singoli e circoscritti reati, ma l’organizzazione mafiosa in quanto tale, significa infatti affrontare una serie di ardui problemi sui diversi ma connessi terreni del diritto penale sostanziale, delle tecniche di investigazione e accertamento processuale e della gestione della fase dibattimentale, specie sotto il profilo della valutazione della prova, con riflessi che secondo Falcone si proiettano sullo stesso ordinamento giudiziario. Insomma: fino a che punto è possibile e lecito, senza tradire i principi della giurisdizione, trasformare la macchina giudiziaria in una sorta di ‘macchina da guerra’ idonea a contrastare la potenza militare di una grande struttura criminale unitaria e compatta come quella di Cosa nostra? Beninteso, anche il terreno del diritto penale sostanziale va considerato non in sé stesso, bensì nella sua interazione col processo. Da questo punto di vista, com’è intuibile, la prospettiva di analisi si incentra sul rapporto tra accertamento processuale e reato associativo: l’utilizzo del reato associativo, e in particolare dell’art. 416 bis c.p., funge bene infatti da presupposto sostanziale di una strategia processuale volta a conseguire quella visione complessiva e panoramica, che sola consente il collegamento probatorio in forma di “mosaico” di fatti e vicende apparentemente slegati e distanti. Ma è anche vero che la medaglia ha un rovescio: cioè un uso eccessivo del reato associativo genera fenomeni di abnorme gigantismo processuale, e può perciò presentare controindicazioni — per dirla con Antonio Ingroia — «sotto il profilo del rischio di appiattimento della valutazione della responsabilità individuale del singolo imputato rispetto alla piattaforma probatoria complessiva». Proprio il nesso tra reato associativo e accertamento processuale viene, non a caso, toccato in più luoghi della produzione scientifica di Falcone: ed è toccato specie sotto il profilo della compatibilità dei maxiprocessi con il processo di tipo accusatorio, che si annunciava come rivoluzionaria novità a cavallo tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta (novità che, come sappiamo, Falcone non è purtroppo arrivato a sperimentare sino in fondo). In effetti, Falcone si rendeva conto che, nella versione originaria, il nuovo rito avrebbe scoraggiato i maxiprocessi; per cui egli ipotizzava che, in prospettiva, si sarebbe dovuto privilegiare l’accertamento processuale dei singoli reati-fine rispetto all’utilizzo della fattispecie associativa come tale. Sennonché modifiche normative intervenute nei primi anni Novanta e motivate proprio dall’esigenza di adattare il nuovo rito ai processi di criminalità organizzata, avrebbero consentito – come di fatto è avvenuto – lo svolgimento di vari processi di grosse dimensioni a titolo di 416 bis c.p. anche sotto il vigore dell’attuale codice: ma sarebbe ingiusto far carico a Falcone, nel frattempo barbaramente ucciso, di non avere previsto ciò che sarebbe stato oggettivamente difficile prevedere.

    Il problema delle tecniche di indagine e di accertamento processuale è stato al centro dell’interesse speculativo di Falcone in modo ricorrente, a partire dal famosissimo scritto del 1982, “Tecniche di indagine in materia di mafia, elaborato a quattro mani insieme a Giuliano Turone. E’ in questo saggio che viene compiuto un tentativo di sistemazione teorica dei criteri-guida da adottare ai fini di una solida ricostruzione processuale dei reati di mafia. Questo tentativo sistematico vuole essere innovativo a partire dalla premessa di fondo: premessa ispirata a una cultura processuale di tipo garantistico che mostra sfavore per le “scorciatoie” probatorie a carattere sociologico, o in termini di “tipo d’autore”, consentite dall’assunzione del reato associativo a pilastro fondamentale dell’indagine. La preferenza viene, invece, in linea di principio accordata a una strategia processuale incentrata sull’accertamento di specifici fatti delittuosi corrispondenti a reati-scopo dell’associazione criminosa. Si tratterebbe del metodo d’indagine non solo più corretto sotto il profilo giuridico, ma anche più efficace dal punto di vista dei risultati: perché il metodo consistente nel risalire dall’individuazione dei cosiddetti reati-fine al delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso consentirebbe anche di rendere più certa e meno evanescente la prova dello stesso reato associativo.