Ludovico De Tomi – circa il reato di appropriazione indebita – segnala ai lettori il
deposito della sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 646, primo comma, del codice penale – come modificato
dall’art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e
in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici) – nella parte in cui prevede la
pena della reclusione «da due a cinque anni» anziché «fino a cinque anni».
Si pubblica, di seguito, il testo del comunicato stampa della Corte:
Appropriazione indebita: illegittima la pena minima di due anni di reclusione.
Il brusco innalzamento della pena minima per l’appropriazione indebita, portata da quindici
giorni a due anni di reclusione dalla legge n. 3 del 2019 è sprovvisto di qualsiasi plausibile
giustificazione ed è, già per questa ragione, costituzionalmente illegittimo.
Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 46, depositata oggi, che ha accolto
una questione sollevata dal Tribunale di Firenze, di fronte al quale pendeva un processo
per appropriazione indebita del valore di 200 euro, commessa da un agente immobiliare
che aveva restituito soltanto in parte al proprio cliente la somma ricevuta a titolo di
cauzione per un contratto di locazione, poi non conclusosi.
La Corte ha rammentato che il legislatore gode di ampia discrezionalità “nella definizione
della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili
a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di
reato”. Tuttavia, ha aggiunto la Corte, “discrezionalità non equivale ad arbitrio. Qualsiasi
legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve
potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal
legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente
sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”.
Il controllo sul rispetto di questi limiti – prosegue la sentenza – spetta alla Corte
costituzionale, che “è tenuta a esercitarlo con tanto maggiore attenzione, quanto più la
legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade
rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri
diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari”.
Alla luce di questi principi, la Corte ha osservato che l’aumento della pena minima per
l’appropriazione indebita deciso nel 2019 è stato voluto da una legge la cui finalità
essenziale era quella di combattere in modo più efficace la corruzione. Come osservato
nei lavori preparatori della legge, l’appropriazione indebita di somme societarie può essere
in concreto funzionale rispetto a successive pratiche corruttive; il che può spiegare la
scelta del legislatore di innalzare la pena massima prevista per il reato dalla soglia di tre
anni a quella attuale di cinque anni.
Resta però del tutto oscura la ragione che ha indotto il legislatore a innalzare a due anni la
pena minima, che dal 1931 al 2019 era stata pari a quindici giorni di reclusione. Ciò “a
fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende
condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone
offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva
modesti”. E i fatti meno gravi di appropriazione indebita, ai quali deve applicarsi la pena
minima, “nella gran maggioranza dei casi nulla hanno a che vedere con condotte
prodromiche alla corruzione, e in particolare con la costituzione di ‘fondi neri’ dai quali
poter attingere per tale scopo”.
Una pena simile, d’altra parte, appare manifestamente sproporzionata rispetto a quella
minima (di sei mesi di reclusione) oggi prevista per un furto e una truffa che, in ipotesi,
producano esattamente lo stesso danno patrimoniale di 200 euro.
Né potrebbe obiettarsi, ha sottolineato ancora la Corte, che la pena può comunque essere
mitigata dalle attenuanti generiche, cui il giudice non deve essere costretto a ricorrere solo
per evitare l’inflizione di pene sproporzionate. Così come l’imputato non deve essere
spinto a scegliere il patteggiamento o il giudizio abbreviato, rinunciando così a una parte
importante delle sue garanzie difensive, soltanto per ottenere uno sconto di pena rispetto
a una pena che risulterebbe altrimenti manifestamente eccessiva.
La Corte ha, infine, sottolineato, che il rimedio appropriato alla violazione della
Costituzione riscontrata è qui, semplicemente, la cancellazione della pena minima, che
resterà così automaticamente fissata in quella prevista in generale dal codice penale per
la reclusione, pari appunto a quindici giorni.
Resterà poi libero il legislatore di valutare se stabilire un nuovo minimo di pena, nel
rispetto del principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena.
Roma, 22 marzo 2024